angelo
2011-07-22 13:21:23 UTC
Ero tornato da Juan les Pins piuttosto deluso. Il concerto alla Pinede
Gould quest’anno era sembrato – a me e agli amici di sempre – fiacco e
impreciso. Stanno invecchiando, ci siamo detti. Non lo seguiremo
ancora per molto, ci siamo ripetuti. L’amarezza è stata addolcita solo
dal secondo e terzo giro di crepes della serata. Poi, da Napoli due
giorni dopo Enzo mi racconta di un San Carlo in estasi. Vuoi vedere
che invece. E allora, a Milano ci vado con molti dubbi ma qualche
attesa. Anche perché non ho mai messo piede agli Arcimboldi.
Alla fine di un pomeriggio inondato di luce attraverso Milano già un
po’ in vacanza per atterrare all’Harry’s bar fuori dalla biglietteria,
dove l’ultimo tavolino di fuori l’ha appena preso Manfred Eicher con
la sua chioma bianca e fluente nonostante i quasi settanta’anni. E’ un
po’ straniante un teatro così europeo nel borgo di Greco, mi sembra di
essere all’Auditori di Barcellona o alla Philarmonie di Berlino.
Molto bello, fuori e dentro.
Sono nella galleria alta, il palco è un po’ lontano, effetto terzo
anello di San Siro, ma si sente benissimo. Jarrett – camicia rossa
rossa - Gary e Jack entrano alle nove e un quarto. La sala non è
proprio piena. Attacca con una bella versione di All of you. Bene,
sembra tonico, ci diciamo. Poi, Summertime, che aveva già fatto a
Juan, ma con tutt’altro piglio. Ehi, sembra serata. Continua con Stars
fell in Alabama – pezzo con non riconosco mai se non mi aiuta Giangi
-, poi un pezzo blues che non identifichiamo, e finisce il primo set
con I’gonna laugh you right out of my life. Applausi convinti.
La solita batteria un po’ invadente di De Johnette e il basso di
Peacock che ormai è un po’ evanescente – ma Jarrett è in forma.
Energico, scattante, suona in piedi e si contorce come ai bei tempi,
piazza delle scale a velocità stellare e poi fa cantare il piano. E’
un piacere aspettare il secondo tempo, stasera. Anche perché poi
riesco a infilarmi in platea, quinta o sesta fila, dove Enzo mi
segnala qualche posto libero.
Si riparte con una interlocutoria Life is just a bowl of cherries,
giusto per mescolare le carte. Seguita poi da una meravigliosa,
emozionante Answer me my love, suonata con una delicatezza e ricchezza
di sfumature e un tocco sublime che mi commuovono. E infatti, alla
fine del pezzo l’applauso non finisce più. Segue Solar, con un lungo
assolo un po’ esitante all’inizio di Jack, e poi una straordinaria
versione di When will the blues leave, così diversa da tutto il resto
della serata, quasi free nella sua libertà, trascinante e selvaggia.
Gary si trasfigura e va in estasi nel corso del pezzo.
Difficile riprendersi dopo. Ci vuole qualcosa di un po’ leggero.
Tennessee Waltz è perfetta, certo non per quelli che l’hanno sentita
cinquanta volte, ma la sala apprezza. I tre vecchietti si alzano,
ringraziano il pubblico osannante e escono. Nonostante molti flash,
ritornano in scena più volte finche non si risiedono, prima per la
classica Things ain’t what they used to be, e una seconda volta. Noi
pensiamo che ovviamente faranno la solita chiusura con When I fall in
love, ma Jarrett decide di deliziarci con Once upon a time.
Puro piacere. La gente si alza in piedi. Applaude, pesta i piedi,
urla, fischia. Fotografa. Jarrett non fa una piega. Un ultimo inchino
poi si accendono le luci. Sono le undici e venti. Steve appare sul
palco, con una barba bianca incolta, ci dice che Jarrett stasera non
riceve nessuno perché l’aeroporto sta per chiudere. ‘Please, tell him
it has been a wonderful one’. ‘Ok, see you in Spain’. Nei sei concerti
di questa tournèe estiva – Copenhagen, Strasburgo, Parigi, Juan,
Napoli, Milano – ha suonato pezzi sempre diferenti. La sua memoria
musicale è mostruosa.
Vedo facce sorridenti, sorprese, ‘ma che bello!’ qualcuno dei neofiti
mi dice ‘ma di solito non fa lo stronzo?’, Enzo è raggiante come me,
amici arrivano per dire la loro soddisfazione, ‘ è la prima volta che
lo sento, sono strabiliato!’, Giangi fa come al solito il purista –
‘se non avesse fatto quella versione di When will the blues sarebbe
stato un concerto inutile, vuoi mettere i concerti degli anni ’80, per
esempio Den Haag dell’86…’. Lo perdoniamo. Ha sentito 120 concerti di
Jarrett. Può permetterselo.
Ma poi che bello rimanere lì fino a tardi davanti al teatro a capire
che non c’è nessuno in giro come lui, che la nostra passione non è
finita. Che dopodomani c’è Barcellona e non ci andiamo solo per le
tapas del Bilbao Berria. Dietro di noi, Stefano Bollani commenta il
concerto. Non sentiamo cosa dice. Sono andato nell’ultimo mese tre
volte a sentirlo, in solo, in trio, in chiacchiere musicali. Bravo,
niente da dire, divertente, istrionico. Curiosità, anche attesa,
vediamo cosa vuol fare. Affetto, è italiano. Ammirazione, la tecnica è
straordinaria.
Ma l’amore è un’altra cosa.
Gould quest’anno era sembrato – a me e agli amici di sempre – fiacco e
impreciso. Stanno invecchiando, ci siamo detti. Non lo seguiremo
ancora per molto, ci siamo ripetuti. L’amarezza è stata addolcita solo
dal secondo e terzo giro di crepes della serata. Poi, da Napoli due
giorni dopo Enzo mi racconta di un San Carlo in estasi. Vuoi vedere
che invece. E allora, a Milano ci vado con molti dubbi ma qualche
attesa. Anche perché non ho mai messo piede agli Arcimboldi.
Alla fine di un pomeriggio inondato di luce attraverso Milano già un
po’ in vacanza per atterrare all’Harry’s bar fuori dalla biglietteria,
dove l’ultimo tavolino di fuori l’ha appena preso Manfred Eicher con
la sua chioma bianca e fluente nonostante i quasi settanta’anni. E’ un
po’ straniante un teatro così europeo nel borgo di Greco, mi sembra di
essere all’Auditori di Barcellona o alla Philarmonie di Berlino.
Molto bello, fuori e dentro.
Sono nella galleria alta, il palco è un po’ lontano, effetto terzo
anello di San Siro, ma si sente benissimo. Jarrett – camicia rossa
rossa - Gary e Jack entrano alle nove e un quarto. La sala non è
proprio piena. Attacca con una bella versione di All of you. Bene,
sembra tonico, ci diciamo. Poi, Summertime, che aveva già fatto a
Juan, ma con tutt’altro piglio. Ehi, sembra serata. Continua con Stars
fell in Alabama – pezzo con non riconosco mai se non mi aiuta Giangi
-, poi un pezzo blues che non identifichiamo, e finisce il primo set
con I’gonna laugh you right out of my life. Applausi convinti.
La solita batteria un po’ invadente di De Johnette e il basso di
Peacock che ormai è un po’ evanescente – ma Jarrett è in forma.
Energico, scattante, suona in piedi e si contorce come ai bei tempi,
piazza delle scale a velocità stellare e poi fa cantare il piano. E’
un piacere aspettare il secondo tempo, stasera. Anche perché poi
riesco a infilarmi in platea, quinta o sesta fila, dove Enzo mi
segnala qualche posto libero.
Si riparte con una interlocutoria Life is just a bowl of cherries,
giusto per mescolare le carte. Seguita poi da una meravigliosa,
emozionante Answer me my love, suonata con una delicatezza e ricchezza
di sfumature e un tocco sublime che mi commuovono. E infatti, alla
fine del pezzo l’applauso non finisce più. Segue Solar, con un lungo
assolo un po’ esitante all’inizio di Jack, e poi una straordinaria
versione di When will the blues leave, così diversa da tutto il resto
della serata, quasi free nella sua libertà, trascinante e selvaggia.
Gary si trasfigura e va in estasi nel corso del pezzo.
Difficile riprendersi dopo. Ci vuole qualcosa di un po’ leggero.
Tennessee Waltz è perfetta, certo non per quelli che l’hanno sentita
cinquanta volte, ma la sala apprezza. I tre vecchietti si alzano,
ringraziano il pubblico osannante e escono. Nonostante molti flash,
ritornano in scena più volte finche non si risiedono, prima per la
classica Things ain’t what they used to be, e una seconda volta. Noi
pensiamo che ovviamente faranno la solita chiusura con When I fall in
love, ma Jarrett decide di deliziarci con Once upon a time.
Puro piacere. La gente si alza in piedi. Applaude, pesta i piedi,
urla, fischia. Fotografa. Jarrett non fa una piega. Un ultimo inchino
poi si accendono le luci. Sono le undici e venti. Steve appare sul
palco, con una barba bianca incolta, ci dice che Jarrett stasera non
riceve nessuno perché l’aeroporto sta per chiudere. ‘Please, tell him
it has been a wonderful one’. ‘Ok, see you in Spain’. Nei sei concerti
di questa tournèe estiva – Copenhagen, Strasburgo, Parigi, Juan,
Napoli, Milano – ha suonato pezzi sempre diferenti. La sua memoria
musicale è mostruosa.
Vedo facce sorridenti, sorprese, ‘ma che bello!’ qualcuno dei neofiti
mi dice ‘ma di solito non fa lo stronzo?’, Enzo è raggiante come me,
amici arrivano per dire la loro soddisfazione, ‘ è la prima volta che
lo sento, sono strabiliato!’, Giangi fa come al solito il purista –
‘se non avesse fatto quella versione di When will the blues sarebbe
stato un concerto inutile, vuoi mettere i concerti degli anni ’80, per
esempio Den Haag dell’86…’. Lo perdoniamo. Ha sentito 120 concerti di
Jarrett. Può permetterselo.
Ma poi che bello rimanere lì fino a tardi davanti al teatro a capire
che non c’è nessuno in giro come lui, che la nostra passione non è
finita. Che dopodomani c’è Barcellona e non ci andiamo solo per le
tapas del Bilbao Berria. Dietro di noi, Stefano Bollani commenta il
concerto. Non sentiamo cosa dice. Sono andato nell’ultimo mese tre
volte a sentirlo, in solo, in trio, in chiacchiere musicali. Bravo,
niente da dire, divertente, istrionico. Curiosità, anche attesa,
vediamo cosa vuol fare. Affetto, è italiano. Ammirazione, la tecnica è
straordinaria.
Ma l’amore è un’altra cosa.